Il Regno Unito e l’Unione Europea hanno raggiunto un accordo in merito al periodo di transizione che porterà alla Brexit, il quale durerà fino al 31 dicembre 2020 e, di fatto, congelerà la situazione attuale sino a tale data. A partire da tale momento, però, ove non si dovesse trovare un nuovo accordo, la Gran Bretagna diventerebbe un paese terzo, con tutti i rischi e le decisioni collegate. In particolare, tra le possibili conseguenze di un simile scenario, si potrebbero verificare effetti negativi per gli investimenti provenienti dai diversi paesi dell’UE, tra i quali l’Italia. La Gran Bretagna, infatti, con un sistema che garantisce la certezza del diritto, un mercato del lavoro flessibile e la presenza di lavoratori altamente qualificati, è da sempre meta di numerosi investimenti esteri in ogni settore economico. Con tale riguardo, l’Italia ricopre un ruolo primario in quanto ad investimenti nell’economia inglese e, nonostante la crisi economica che ha afflitto i mercati dal 2008, i rapporti fra i due paesi sono da tempo solidi e diversificati. Basti pensare che, a quanto risulta da un recente rapporto della Camera di Commercio & Industria italiana per il Regno Unito, sono circa 695 le imprese italiane presenti nel mercato inglese con diverse strategie di business (ad esempio, tramite joint ventures, fusioni, contratti di distribuzione ecc.). Il trend positivo sopra descritto, tuttavia, potrebbe subire una battuta d’arresto all’uscita del Regno Unito dall’UE. La Brexit potrebbe causare, infatti, diversi fattori di incertezza per gli investitori esteri. Oltre alla possibilità che il Regno Unito perda le c.d. quattro libertà su cui si fonda il mercato comune, va considerata anche l’eventuale non applicabilità delle norme comunitarie disposte a garanzia della concorrenza e del mercato e la probabile modifica del sistema fiscale armonizzato vigente con riferimento alle imposte sul valore aggiunto. Considerato, quindi, l’inevitabile cambiamento nelle norme che regolano i rapporti tra il Regno Unito e l’UE, una joint venture (associazione temporanea di imprese) potrebbe rivelarsi il mezzo maggiormente efficace per le imprese che intendano effettuare investimenti nel periodo di transizione o a breve termine. La stessa non trova una definizione nel diritto inglese o italiano, trattandosi solitamente di un accordo dove due o più imprese collaborano al fine di perseguire uno scopo comune. Ad esempio, nel Regno Unito una joint venture può essere condotta tramite un contratto (ad esempio distribuzione o agenzia) oppure attraverso la costituzione di una nuova società. Oltre a ciò, anche la fusione transfrontaliera inversa, prevista dalla Direttiva 2005/56/CE, rappresenta uno strumento utile per le imprese di diritto inglese che intendano fondersi con le società controllate con sede in un altro Stato Membro dell’UE, al fine di espandersi o, eventualmente, spostare il loro head quarter. L’intero contributo, a cura dello studio Macchi di Cellere Gangemi, è disponibile sul sito AIFI.