Molti imprenditori italiani si chiedono se sia meglio quotarsi in Borsa o aprire il capitale a un fondo di private equity, visto che già da prima della pandemia la ridotta patrimonializzazione era un grosso limite alla competitività delle imprese.
Guardando ai primi cinque mesi dell’anno, scrive Luigi Dell’Olio su Repubblica, sembrano non esserci dubbi: stando alle rilevazioni del Private Equity Monitor della Liuc Business School, il primo trimestre del 2021 ha visto chiudersi 66 operazioni, che ad oggi sono diventate 102.
La Borsa Italiana invece ha registrato 13 nuove matricole da inizio anno, e la più importante di queste è la quotazione della Spac Revo, che ha raccolto circa 220 milioni di euro sui 496 milioni totali raccolti da inizio 2021.
Mentre l’Ipo punta solamente a raccogliere capitali, l’apertura a un fondo comporta anche molto spesso l’apporto di risorse professionali ed un network di contatti per sviluppare il business: i private equity solitamente ottengono un posto del CdA e hanno voce in capitolo sulla scelta del management, il che può rivelarsi un’arma a doppio taglio.
La maggior parte degli operatori di private equity effettua investimenti in maggioranza, mentre chi si quota in Borsa solitamente colloca una quota minoritaria del capitale mantenendo un buon presidio sulla governance.
La quotazione in Borsa, inoltre, porta le aziende a darsi un’organizzazione efficiente e a garantire trasparenza agli stakeholder; di contro, significa anche accettare di fare i conti con la volatilità delle quotazioni.
Rispetto al passato i fondi di investimento sono più propensi ad accettare orizzonti d’investimento più lunghi, rispetto ai canonici 4-7 anni. L’ingresso di investitori istituzionali può essere il primo passo di un percorso che porta un’azienda a quotarsi: quindi, in alcune situazioni, più che alternative le due soluzioni possono entrare all’interno di un percorso di crescita.